Dal localismo all’universalità


L'any 2007 vaig participar en unes jornades literàries a Avellino (Itàlia): Le notti ritrovate. Aquesta va ser la meua intervenció. (I l'agraïment a la meua amiga Carmen Llinares, que em va corregir el text).


Dal localismo all’universalità


Faccio una letteratura che oso qualificarla, grosso modo, d’identitaria, anche di localista. Ma bisogna prendere queste qualificazioni come semplici etichette; non sono per niente dei concetti chiusi, oppure dogmatici. Per me, le frontiere dei territori letterari sono sempre, per necessità di libertà creativa, elastici. Peraltro l’autore deve essere sempre invasore, anzi ha il dovere d’addentrarsi più in là di tutti oltre le frontiere. Forse qualcuno penserà adesso che qualificare la letteratura come identintaria e localista è un modo di sottostimarsi, proprio quando siamo immersi in un processo di globalizzacione che dispregia qualsiasi forma di localismo. Ma sono convinto che la letteratura soltanto può essere universale –che è cosa differente, senza dubbio contraria, al concetto presente della globalizzazione-, si parte dalla radice vitale, sentimentale, anche geografica e linguistica dello scrittore.

Disse lo scrittore russo Leone Tostoi: “Se vuoi essere universale racconta il tuo villaggio”.

Il mio villaggio è Xàtiva, città a cinquanta km di Valencia. Ecco: io racconto Xàtiva ed i suoi dintorni, e nomino con i loro nomi ogni strada, le piazze, i vicoli, i sentieri, il fiume che attraversa gli orti, le case nuove e le vecchie, le montagne e le colline, tutto quello che ancora esiste e quello che purtroppo è stato distrutto. Presente e memoria. Racconto quello che veramente conosco perché l’ ho vissuto. E così non ho bisogno di inventare per i miei personaggi una storia comune, un immaginario collettivo, un paesaggio d’ estate oppure in inverno, delle strade nobili, dei quarteri di muratore, contadini, impiegati, comercianti, puttane, polizie… Ho già una città inventata da varie migliaia d’anni.

Racconto la mia città, il mio piccolo paese, più propriamente patria, allo stesso modo che prima altri autori hanno racontato le loro. Vedo e racconto la mia città come Bassani vedeva e raccontava Ferrara, come Pratolini Firenze, oppure Pavese il Piemonte, Sciascia la Sicilia… E se con questi esempi non basta, possiamo ancora riportare i luoghi immaginari che universalizzarono García Márquez e Faulkner, Macondo e Yoknapatawpha; oppure la Vigàta siciliana di Camilleri. Sono tanti che hanno raccontato i loro villaggi… Faulkner magari rivoluziona la letteratura del Novecento, senza uscire da quel paesino dove abitano, esattamente, 6.928 bianchi e 9.313 neri. Raccontandoci i conflitti di questa particolare comunità umana Faulkner incorpora nella letteratura del momento tecniche narrative più innovatrici. In egual modo che James Joyce: “L'ambientazione delle sue opere, così saldamente legata a Dublino, lo fece diventare uno dei più universali e allo stesso tempo più locali scrittori irlandesi”.

Il consiglio di Tolstoi non è strano quindi nella tradizione e neanche nella modernità letteraria. Quanto localismo, per così dire, è la base sostanziale di buona parte di quella letteratura più universale, quanto “villaggio raccontato”. Io racconto Xàtiva non tanto come una geografia sentimentale, bensì come una rappresentanza proporzionale del mondo. Voglio dire, insomma, che tutto quello che accade in una popolosa città di dieci milioni di abitanti può succedere anche in un villaggio tra montagne di cento anime. Dove ci siano esseri umani, possono rappresentarsi tutti gli esempi della condotta umana, dall’amore all’odio, durante pace e durante la guerra. Io ho preso la mia città come spazio letterario, e non mi piace essere trattato come scrittore senza ambizione letteraria, antico, rurale, provinciale. Infine la modernità nell’arte non si misura dal tema o dall’ubicazione geografica, ma dall’uso rinnovato della tradizione e degli strumenti narrativi, così come hanno fatto Joyce e Faulkner.

Ma oggigiorno, circondati da tutta questa dottrina dalla globalizzazione pare che la modernità debba dimenticare il consiglio di Tolstoi, ed adesso, per essere moderni, non dobbiamo più raccontare il villaggio, bensì il mondo come una società unica ed uniforme, dove tutti mangiamo nelle stessi burger king o nelle stesse pizzerie, vediamo gli stessi film, vestiamo dunque uguale, spendiamo con la stessa moneta, parliamo uguale e pensiamo uguale. Non c’è passato, soltanto presente e futuro nel felice modo huxleiano, e così presto la differenza sarà soltanto se siamo della specie alfa, beta, gamma oppure epsilon. Andiamo dunque verso una società uniforme, cioè clonica. E la letteratura per conseguenza anch’essa globale e, purtroppo, similmente clonica. Parlare, dunque, di localismo è raccontare la diversità umana nel senso più ampio e democratico. Come ha fatto sempre la LETTERATURA –scritta qui con lettere maiuscole. Per questo mi dispiace per quei teorici che, nel loro ruolo immoderato di esegeti della globalità annunciano la morte delle letterature dell’identità.

Lo scrittore sceglie le parole con cui ricrea oppure ricostruisce il contesto storico, culturale e sociale che desidera rispecchiare. Grosso modo questo potremmo dire che è l’identità letteraria. Ogni autore costruisce una identità in cui confluiscono la lingua, lo spazio –físico e sentimentale–, la tradizione letteraria particolare e quella universale che gli interessa, lo stesso ambiente sociale, sul quale di solito riflette attraverso la fabulazione creativa. Tutto l’insieme configura l’ identità letteraria dello scrittore. Cionostante ci sono quelli che rifiutano questa identità, che affonda le radici nell’ambito collettivo vicino a loro, e che invece costruiscono la loro letteratura su altri influssi. L’universo della letteratura è ampio e diverso; e così deve essere.

Io racconto e fascio rivivere il mio villaggio, cioè la mia città, Xàtiva. Tremila anni di storia del passato e circa trentamila abitanti senza memoria nel presente. Il futuro è, come per tutti, una incognita. Città dei controversi papi Borgia, del pittore barocco Josep –o Jusepe– de Ribera, detto Lo Spagnoletto, che fece la sua traiettoria artistica a Napoli; Xàtiva oggi, anticamente Saetabis Augusta, città dovunque conosciuta nel tempo dell’ Impero Romano per i suoi fazzoletti di lino, città che fu culla della fabbricazione della carta in Europa, città dove nacque il rinomato –almeno tra noi– brigante Camot, lo sfortunato per antonomasia, che finì sulla forca dopo aver attraversato le cloache, trascinandosi come un bruco, ultimo tentativo per salvarsi invano dal patìbolo. Perciò quando un qualsiasi affare finisce male, diciamo che abbiamo finito come Camot. Nel 1707, per desiderio rancoroso del primo re borbonico, Filippo Quinto, la città fu incendiata ed i loro abitanti espulsi, ed ecco che noi siamo conosciuti col soprannome di “socarrats” (“i bruciati”, più o meno). Ma a tutti raggiunge la vendetta dei vinti, così nel museo comunale noi abbiamo posto il suo ritratto regio a testa in giù, per sempre. Quando finì la guerra civile, nel 1939, nel Terzo Anno Trionfale secondo il linguaggio prepotente della dittatura franchista, a Xàtiva furono messe a muro 74 persone. Spuntava il giorno quando il camion con i cadaveri entrava nella città che ancora non si era svegliata, e una donna, appena resa vedova, urlava ai falangisti che minacciavano quelli che osavano uscire al passaggio del veicolo, e gli mostrava un paio di scarpe: “Vigliacchi!, così uccidete gli uomini, all’oscuro e scalzi!”. Pochi mesi prima di aver fatto i conti i vincitori con i vinti, il 19 febbraio, di mattina, cinque aerei Savoia avevano lasciato cadere le bombe sulla stazione ferroviaria, quando la guerra era già di fatto finita. La terra tremò quel giorno: pezzi umani spenzolavano dagli alberi, sparsi lungo la strada: più di cento morti e circa quanttrocento feriti. Ancora oggi c’è chi vede con gli occhi aperti e chiusi i carrelli caricati di carne umana entrare presto nel cimitero verso la fossa più profonda che mai si era scavata. Ma il regime franchista chiuse il rubinetto della morte e da allora in poi uccideranno con rapidi contagocce. Allora era più facile morire di fame che non sazi di piombo. In quegli anni, il sindaco vestiva al solito con la sua uniforme di capo falangista, bianco di gala, ornato di medaglie. A lui gli chiese lavoro un altro personaggio celebre, il Formigo, povero molto povero, padre di molti figli, che abitava in una grotta accanto al castello. “I miei fligli hanno fame, signor sindaco”, gli disse. E il sindaco gli rimbeccò:” Se avete fame, vai a rubare”. E il Formigo gli fece caso e andò a rubare. Ma rubò a lui il raccolto d’arance. Siccome compì il delitto a faccia scoperta, fu subito imprigionato e portato in tribunale, in quel tempo, però, per i poveri c’erano troppi giudici e poca giustizia. Era chiaro che al Formigo gli sarebbe spettato l’ergastolo e ai suoi figli molti anni di fame. Ma questa storia realmente accaduta non finì così. Il Formigo argomentò davanti al giudice che era proprio il sindaco che gli aveva detto di andare a rubare, e dunque pensò che al sindaco non gli importava se rubava proprio a lui. E anche il giudice pensò così e lo lasciò libero.

Sono cose che ormai non avvengono più oggi. Questi personaggi facevano parte dell’immaginario collettivo, dal quale sono quasi sparite. Xàtiva diventò una città moderna quando l’uomo arrivò sulla luna. Da allora in poi cominciarono a morire le streghe, i guaritori, e anche le fate, i diavoli, i giganti, gli gnomi, le ninfe, le favole e quindi la volpe e il lupo, e il magico fiore del giglio azurro. Come ovunque la scienza vinse la mitologia popolare e l’ immaginario magico. In quel tempo cadevano vecchi palazzi, chiostri conventuali, il carcere borbonico. I confini della città si mangiavano via via i campi prima fertili, in cambio di strade d’asfalto e montagne di mattone. È difficile riconoscervi la città dell’ infanzia. È come se ci avessero rubato le tracce della memoria, come se mai si fosse abitato in quella città; come se fossimo esiliati in casa nostra. Questo è un tema letterario del presente: la trasmutazione della nostra società, nell’aspetto físico e magico. Il cambiamento irreversibile dalla grotta alla luna, dalla terra fertile all’infecondo ma profittevole mattone. Oggi non crediamo più a quelle streghe o a quelle fate; crediamo nella rete invisible dove abita Santo Google, di Bill Gates ed il paradiso Youtube.

Racconto la mia città, e narro anche dei miei, senza nessun pudore, ma tutto convenientemente mescolato e dissimulato: la tipica manipolazione del modo letterario. Mia nonna Maria, emigrante dalla vicina regione di Murcia, che ebbe diciotto figli, la maggioranza dei quali morirono, da come lei si lamentava di solito, a causa della malattia che ammazza sempre i poveri: la miseria. L’altra nonna, di cui ricordo ancora il suo sguardo serio, seduta accanto la tavola intanto preparava il cibo, e negli ultimi giorni di vita guardava con gli occhi fissi il tetto della camera, forse cercandovi l’ampio cielo della sua infanzia, quando abitava sulla vetta d’una piccola montagna, in una chiesetta che avevano in cura i genitori. Mio nonno Gabino, guardiano di notte e becchino di giorno, che dormiva quindi poco e in piedi, nei primi anni della dittatura fu punito per le sue affiliazioni politiche durante la Repubblica e condannato a lavorare come uno schiavo alla costruzione d’un pantano. L’altro nonno, Vicent, vendeva frutta in un piccolo posto del mercato comunale, cacciava uccelli per venderli se cantavano bene e aveva un bell’ asino che si chiamava Coronel (Colonnello). Mio padre era muratore, e morì in età ancora giovane per una malattia che trascinava da bambino. Una malattia che non lo ammazzò nell’infanzia come a molti dei suoi fratelli, ma lo punì per sempre. Una mia nonna scacciò da casa mia madre perché voleva sposarsi con mio padre, un uomo senza salute, “rugginoso”. E quando si sposò, l’altra nonna la minacciava con un coltello arrabbiata perché gli aveva rubato il suo diletto figlio debole e malaticcio. I miei genitori andarono il minimo a scuola, sebbene mio padre imparò a leggere e a scrivere per suo conto grazie alla Bibbia, fu infatti predicatore nella Chiesa Evangelica. Eppure morì ateo convinto. Negli ultimi anni della vita era spesso in ospedale, e come sempre ci entrava a braccetto con la morte e aveva un prete che voleva confessarlo a tutti i costi, affinché non morisse in peccato. Ma mio padre lo rifiutava sempre. Poi dopo essere scampato alla morte tre o quattro volte, stanco per l’insistenza del prete accettò una conversazione con lui. Dopo varie ore di dibattito, il prete, sconfitto, si arrese e gli disse: “Antonio, tu hai letto troppo profondamente la Bibbia”. E non tornò mai più nella sua stanza, e così mio padré morì poco tempo dopo, naturalmente in peccato, ma senza pentirsi di niente e senza avere nessun rimorso… Al contrario mia madre sempre ha detto che Dio esiste, e che lei di solito parla con Lui e lo vede. Una volta encuriosito le chiesi: “Mamma, com’è Dio?” E ella mi disse, commossa, come di chi condivide una chiave segreta: “E’ come una luce bianca e calda che si nascosde tra i mobili, sotto le tavole…”. Purtroppo non è la fede quella virtù, o difetto, che io ho ereditato da mia madre. Neppure so da chi ho ereditato la necessità di raccontare storie, di inventare favole come un bugiardo costretto. Prima di credere ho preferito giocare ad essere più o meno come Dio, e creare con i miei soli atrezzi nuovi mondi per l’universo delle parole e per il godimento dei lettori, forse voialtri.


Avellino, 25 novembre 2007

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